Evviva, la Tv è diventata ‘long’. La Grande serialità: anatomia di un successo

Long Tv, il libro di Daniela Cardini sulle serie tv

Milano, 10 gennaio 2018 – Meglio praticare il binge watching o tantric watching? Il medico vi ha diagnosticato una forma acuta di Fomo? Siamo diventati tutti tele-cinefili senza saperlo? Siete nella fandom e vi tappate occhi e orecchie appena sentite puzza di spoiler nel pieno di un fenomeno di hype?

Il successo travolgente delle serie Tv, considerato una volta prodotto dell’industria culturale di serie B, ha cambiato il nostro modo di vivere, penetrando nell’immaginario collettivo, nella discussione sociale, in quella accademica e persino nel vocabolario di tutti i giorni. Daniela Cardini, docente universitaria alla IULM (Teorie e Tecniche del linguaggio televisivo e di Format e Serie TV ) prova a spiegare questo fenomeno nel suo libro “Long Tv”.

“Long Tv”. Il libro in breve

La parola chiave è “complessità”: narrativa, estetica, produttiva, mediale. Un intreccio di fattori che evidenzia come uno dipenda e influenzi l’altro, in un movimento circolare. Partendo dalle relazioni storiche con la letteratura (il feuilleton) e il cinema, l’autrice descrive le dinamiche produttive e i cambiamenti di stile e formato introdotti nell’ultimo decennio, prima da HBO, e più recentemente dai servizi di streaming, come Netflix, in grado di attirare anche attori e registi di grande successo. Per descrivere infine alcune serie fondamentali per la tipologia che rappresentano: Game of Thrones (la serie-kolossal), The Young Pope (il film seriale), Gomorra (la via italiana) Downton Abbey e The Crown (il period drama britannico), Narcos (la figura dell’antieroe), per chiudere con  “la madre di tutte le serie”, Twin Peaks.

“Le serie Tv realizzano il sogno di tutti”

D: Professoressa Cardini, perché siamo diventati tutti dipendenti dalle serie tv?
R: “Perché raccontano storie e temi con una alta qualità estetica e un grande densità narrativa. Unificando il miglior cinema con la televisione hanno permesso l’estensione di ‘buoni film’ ben oltre la classica ‘ora e mezza’, realizzando il sogno di tutti, addetti ai lavori e spettatori. L’industria cinematografica ha trovato nella serialità uno sbocco interessante, gli investimenti sono crescenti e negli Stati Uniti l’industria americana dell’audiovisivo punta a un prodotto sempre più ‘rotondo’. Si pensi alle collaborazioni di qualità per le colonne sonore”.

D: Quando è nata la cosiddetta Grande serialità? Cosa significa?
R: “Lo spartiacque che segna l’inizio della Grande serialità è Lost. Per le serie tv ha avuto lo stesso impatto del Grande fratello per la televisione. Mettendo insieme cinema, televisione e industria musicale ha voluto rendere seriale (una caratteristica propria del prodotto televisivo) il discorso estetico del cinema. ‘Long tv’ è la definizione che meglio abbraccia questa nuova dimensione”.

D: Cos’è il concetto di ‘Cinema espanso’, applicato alle serie tv?
R: “E’ lo stesso fenomeno della Grande serialità, ma osservato dal punto di vista del cinema. Il prodotto televisivo non è mai stato visto bene da chi studia cinema, soprattutto dai nostri accademici. Eppure anche il cinema ha esordito con modalità seriali, basti pensare ai nickelodeon di inizio secolo. Solo, se ne è sempre parlato poco e male. Il meccanismo seriale è considerato ‘tabù’ in quanto collegato a un’idea di massificazione”.

D: Torniamo a Lost, quali sono le caratteristiche rivoluzionarie che ha introdotto per primo nelle serie tv?
R: “Innanzi tutto un elevato livello qualitativo. Il piano sequenza iniziale, ad esempio, è un capolavoro mai visto nel mainstream della serialità, fino a quel momento. Vi è inoltre una densità narrativa ineguagliata che arriva quasi alla confusione. C’è una vasta aneddotica secondo cui gli sceneggiatori J.J. Abrahms e Damon Lindelof non sapevano più ‘che pesci prendere’ e così dovettero annunciare la chiusura della serie. Ecco, questo meccanismo di seduzione e dominio dello spettatore è un altro punto fondamentale della Grande serialità”.

D: Si spieghi meglio.
R: “Se prima era il pubblico a ‘decidere’ sul proseguimento di una serie o meno, decretandone il successo, ora è lo showrunner che decide. E’ un po’ quello che sta accadendo con Game of thrones. L’annuncio della chiusura genera un’hype pazzesca tra i fan. Quella grande serie diventa così un gioiello e l’appassionato si chiede: ‘Ora che finisce, come faccio?'”.

D: E poi c’è il rapporto con la Rete…
R: “Un altra decisiva novità introdotta da Lost. Per la verità sin dai tempi del primo Twin Peaks, i fan si ritrovavano quasi di nascosto nei primi forum per discutere le idee di David Lynch. Con Lost si genera per la prima volta una vera e propria fandom online, come la conosciamo oggi”.

D: Dietro la domanda di serialità c’è anche il bisogno di soddisfare un istinto infantile, giusto?
R: “Ogni serialità narrativa soddisfa il piacere di sentirsi ripetere ad libitum un contenuto che ci piace. E’ un meccanismo che ha a che fare con l’apprendimento e la naturale coazione a ripetere qualcosa che ci è piaciuto. La serialità raccoglie questa esigenza e soddisfa l’aspettativa del piacere, che nel bambino si esprime con la classica domanda: ‘Mi racconti una storia?’. Che poi magari è sempre la stessa, ma con piccole variazioni”.

D: Lo showrunner: chi è questa ‘mitica’ figura?
R: “E’ il deus ex machina della serie tv. Non è una figura professionale specifica, ma è colui che di volta in volta ha in mano le chiavi della serie. Può essere l’autore, il regista, entrambi ruoli insieme o colui che deve mettere in forma concreta il budget a disposizione. Alcuni esempi sono Shonda Rhimes, autrice di Gray’s Anatomy e Matthew Weiner, creatore e produttore di Mad Men”.

D: Ma perché nelle serie tv di oggi i protagonisti sono spesso ‘cattivi’?
R: “In realtà parliamo di antieroe, che non è per forza il ‘cattivo’. L’antieroe è un personaggio negativo, sì, ma con elementi empatici. Agisce male, ma non è un malvagio e lo spettatore ne riconosce gli elementi umani. Gli esempi più riusciti sono, ad esempio, Walter White e Tony Soprano“.

D: Perché funziona così bene?
R: “L’antieroe è un personaggio complesso che permette di elaborare trame molto dense. La densità narrativa è infatti una chiave della Grande serialità di oggi che permette di sviscerare tutte le sfaccettature dell’animo umano e ha persino messo in secondo piano l’uso del cliffhanger. Chiudere le puntate in un punto di ‘ancoraggio’ è uno stratagemma ancora utilizzato, ma non più come prima. Lo sviluppo psicologico di un personaggio crea nuovi elementi di interesse, come in Big little lies”.

D: Gomorra, Suburra, Narcos, per fare alcuni nomi. Il Male come motore narrativo rischia di proporre modelli negativi al pubblico, fornire giustificazioni a un agire sbagliato, sopprimere la speranza di miglioramento?
R: “In realtà queste serie non propongono modelli di comportamento, ma descrivono un mondo disperato. Credo che il pubblico sia in grado di capire la differenza. Gomorra ad esempio non enfatizza, ma racconta la disperazione del Male, denunciandola. Se questo non fosse ammissibile nessun film potrebbe raccontare quanto c’è di negativo nella vita che a volte è senza soluzione di continuità. Non sempre c’è il lieto fine. Altrimenti non lamentiamoci che la tv ci proponga le soap opera. Non è corretto attribuire alla serie tv una responsabilità diseducativa, se mancano modelli positivi reali nel contesto in cui si vive. La comunicazione istituzionale però, come la promozione sui social network, va fatta in modo corretto”.

D: Il successo di questo fenomeno indica che la vecchia tv è destinata a scomparire?
R: “Sono anni che viene recitato il requiem della televisione generalista, ma quest’ultima ha dimostrato di essere il medium più plastico e capace di assorbire le innovazioni. La Grande serialità in streaming costruisce un suo pubblico di 30-40enni, ma fenomeni come Checco Zalone riescono ancora a fare 6 milioni di telespettatori su Canale 5”.
“Long Tv. Le serie televisive viste da vicino” – Unicopli, 134 pagine, 12€.
Daniele Monaco

daniele.monaco@polismedia.it